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La pelle vegana è sostenibile?

Photo by Kamaji Ogino

Più aumentano i consumi, più ci si spaventa di fronte ai numeri che evidenziano i danni provocati dai comportamenti irresponsabili e superficiali di noi consumatori, artefici del destino del nostro pianeta e delle creature che lo abitano. La FAO registra che tra il 1990-2005, il 71% della deforestazione in Argentina, Colombia, Bolivia, Brasile, Paraguay, Peru e Venezuela era dovuta all’aumento della domanda di pascoli. Animali destinati a diventare prodotti alimentari e capi di abbigliamento. L’industria conciaria genera un notevole impatto sull’ambiente a causa dei grossi consumi di acqua e del rilascio di sostanze chimiche inquinanti ed allergizzanti.

Pelle coccodrillo
Photo by 3K

La soluzione, dunque, è smettere di consumare prodotti in pelle animale?

Purtroppo, non è facile individuare la scelta giusta. Ricordate il dibattito nato lo scorso anno rispetto a quale oggetto avesse un maggior impatto ambientale tra la borraccia in alluminio/acciaio o la bottiglia di plastica? Bene, un discorso simile vale per la pelle vegana, chiamata incorrettamente “pelle” per identificare al meglio la sua funzione sostitutiva alla pelle animale. 

Attualmente, in commercio esistono diverse tipologie di pelle vegana.

Pelle vegana sintetica (o similpelle)

La pelle sintetica è la più economica e diffusa. Utilizzata dalla maggior parte dei marchi fast-fashion, questo tipo di pelle è realizzata in PVC o poliuretano. Trattandosi di plastica, questo materiale, rappresenta sì un’alternativa etica, ma sicuramente non ecologica. La similpelle, inoltre, tende a sgretolarsi nel tempo, diventando presto un rifiuto. Quindi, se da un lato questo tipo di pelle vegana risulta essere cruelty-free, economica e facilmente reperibile, dall’altro la sua realizzazione e il suo smaltimento risultano essere nocivi per l’ambiente.

Pelle vegana vegetale (organica)

Negli ultimi anni sono tantissime le start-up che hanno ricevuto ingenti finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo di pelli a base vegetale. Rispetto a quella sintetica, quest’ultima è decisamente più sostenibile, essendo composta prevalentemente (attenzione, non interamente) da ingredienti naturali. Tuttavia, da un punto di vista qualitativo e di durabilità non è paragonabile alla pelle vera. Bisogna, inoltre, ricordare, che la pelle vegetale non è a impatto zero, in quanto per la sua produzione vengono spesso utilizzati macchinari che hanno come fonte energetica i combustibili fossili.

La nota stilista britannica Stella McCartney, figlia di Linda, famosa fotografa e modella nota per aver fondato un marchio specializzato in cibo vegetariano e vegano, è stata una pioniera nella sperimentazione di alternative alla pelle animale. Guidata da saldi principi etici e morali, Stella si è da sempre schierata dalla parte degli animali, dando vita a creazioni 100% cruelty-free. L’esempio di Stella, ci dimostra che è assolutamente possibile coniugare moda e sostenibilità. Le sue creazioni infatti, oltre a non utilizzare prodotti di origine animale, sono realizzate con materiali innovativi e biodegradabili, come il Mylo o “pelle di fungo”, una pelle vegana (o vegetale), che presenta caratteristiche molto simili alla vera pelle.

La pelle vegetale rappresenta sicuramente il futuro della moda. Tuttavia, i costi di produzione e il fatto che la maggior parte dei materiali esistenti siano ancora vincolati da diritti di esclusiva, gravano fortemente sul costo finale, rendendolo un prodotto ancora poco accessibile.

Una pelle animale cruelty-free è possibile?

Non c’è dubbio che la pelle animale rappresenti un materiale con caratteristiche uniche e inimitabili come durabilità, resistenza e traspirabilità. 

E se la scelta giusta fosse proprio quella di continuare ad utilizzare la pelle animale? In che modo potremmo indossarla senza uccidere altri animali o produrre ulteriore inquinamento?

In questo senso il second-hand potrebbe rappresentare una soluzione economica, a impatto zero (in quanto la pelle è già stata prodotta e lavorata) ed etica, poichè non coinvolge l’utilizzo alcuno di animali.

Inoltre, ricordiamoci che la pelle è un materiale che può essere facilmente rigenerato, ma acquisisce ancora più fascino se invecchiata! Nel caso in cui i motivi elencati non fossero abbastanza, sfoglia la nostra collezione di borse e accessori in pelle e lasciati ispirare da una selezione di prodotti second-hand esclusivi e in ottime condizioni.

Scopri la selezione

Dietro le quinte del fast-fashion

Photo by Ron Lach

Pensi di sapere davvero tutto ciò che si cela dieto l’industria del fast-fashion? In questo articolo proviamo a svelarti qualche segreto in più, mostrandoti la catena di montaggio costruita attorno ad una delle industrie più inquinanti al mondo: quella della moda.


Il modello fast-fashion è INSOSTENIBILE sia dal punto di vista etico che ecologico. Proprio come il capitalismo si è rivelato un sistema incapace di “rigenerare” il tessuto socio-economico, accentuando le disparità e le disuguaglianze tra i popoli ed innescando la crisi ambientale globale, così il business del fast-fashion, sfruttando un numero significativo di risorse umane e ambientali, inizia ad apparire come una nota stonata nella melodia composta dagli obiettivi dell’Agenda 2030.

Mai come adesso le nostre scelte pesano sul futuro del pianeta e mai come ora è fondamentale comprendere le conseguenze delle nostre azioni quotidiane, anche quelle più semplici come l’acquisto di una t-shirt.
Molti di noi sanno che per produrre una t-shirt sono necessari circa 2.700 lt d’acqua. Immaginiamo di produrre 450 milioni di articoli all’anno (come fa un noto marchio di fast-fashion). Se la matematica non è un’opinione, dovremmo destinare esattamente 1.215.000.000.000 lt di acqua al solo processo produttivo (ipotizzando che tutti i capi siano realizzati in cotone e siano solo t-shirt). Secondo i dati 2019 dell’UN Environment Programme, l’industria della moda è infatti responsabile del 20% del consumo mondiale di acqua.

E se al posto del cotone utilizzassimo il poliestere?


Anche in questo caso non aiutiamo l’ambiente. Il poliestere è una fibra sintetica ricavata dal petrolio che da solo rappresenta la metà del consumo mondiale di fibre tessili. Alla pari di qualsiasi altro prodotto a base di combustibili fossili, come il PVC, la sua lavorazione sprigiona considerevoli quantità di gas serra. Inoltre, durante il processo di produzione, vengono utilizzate sostanze chimiche tossiche, che spesso permangono sui vestiti che indossiamo. Se volete approfondire l’argomento, vi consigliamo di leggere anche l’articolo “Il lato oscuro della moda Vegan”.


La stragrande maggioranza dell’abbigliamento venduto in Occidente proviene dal sud-est asiatico. Ciò significa che una volta realizzati, i vestiti devono percorrere migliaia di km per arrivare ai centri di distribuzione in Europa e in America. E secondo voi come viaggiano i vestiti? Ovviamente in aereo o in mare! Calcolando che il ciclo produttivo di un capo fast-fashion è di circa 5 settimane, il processo distributivo è come un interruttore sempre acceso, con milioni di prodotti che varcano ogni giorno i confini dei Paesi occidentali generando generose quantità di CO2.
Una volta giunti nelle nostre case, questi vestiti continuano ad inquinare lungo l’intero ciclo di vita. Il lavaggio di indumenti sintetici rappresenta il 35% del rilascio di microplastiche primarie nell’ambiente. Un solo carico in lavatrice può rilasciare fra le 700.000 e i 12 milioni di microfibre che finiscono in mare e tornano nei nostri piatti!

Che fine fanno gli abiti dismessi?


Il fast-fashion spinge ad accorciare il ciclo di vita dei prodotti che, nella maggior parte dei casi, finiscono nella spazzatura o in discarica anche dopo pochi mesi. Ciò è dovuto non solo alla scarsa qualità delle materie prime utilizzate, ma ad una subdola strategia persuasiva che ci spinge a rifiutarci di indossare la stessa cosa più di una volta, dando vita a una vera e propria relazione di dipendenza dallo shopping.
Una volta giunti in discarica i vestiti impiegano anche fino a 200 anni (come nel caso del poliestere) per decomporsi, specialmente quelli in fibra sintetica.

Riciclare gli abiti può rappresentare una soluzione?


Certamente, ma serve solamente ad arginare il problema. Innanzitutto, non tutti i capi possono essere riciclati. Quelli caratterizzati da fibre miste (ad esempio, 50% cotone 50% poliestere) sono quasi impossibili da riciclare. Al giorno d’oggi solamente l’1% degli abiti dismessi viene riciclato. Inoltre, il processo di riciclo delle fibre richiede ingenti quantitativi di energia e di agenti chimici, senza considerare che, una volta riciclati, le nuove fibre entreranno a far parte di un nuovo ciclo produttivo e distributivo.

Il fallimento dell’economia lineare ha segnato l’ascesa del modello circolare, che ha unito le due estremità del processo lineare (materie prime e rifiuti), riportando i rifiuti all’inizio della catena produttiva e utilizzandoli come materia prima . Mirco Mariucci (L’inganno dell’Economia circolare, 2019) ci spiega perché un modello di economia circolare, così inteso, risulta a lungo andare anch’esso inefficace:

  1. Non tutte le materie prime possono essere riciclate;
  2. non tutto ciò che può essere riciclato, può essere rimpiegato per la medesima finalità di partenza;
  3. non tutto ciò che può essere riciclato , può essere riciclato all’infinito;
  4. produrre, consumare, riciclare non sono attività “innocue” per l’ambiente;
  5. una parte di materia/energia viene irrimediabilmente ed inevitabilmente “dissipata” durante le fasi di produzione, consumo e riciclaggio.

E’ chiaro che il nocciolo della questione sta nel consumo stesso. Il consumo innesca la produzione e genera rifiuti. Rivalutare il proprio approccio alla moda e le proprie abitudini di acquisto rappresentano azioni importanti capaci di indirizzare il settore della moda verso una produzione ed un consumo più sostenibile per chi lavora, per chi acquista e per il pianeta che ci ospita.

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